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Curare, cioè prendersi cura

Uno - ospedale

Grazie a Dio non bazzichiamo molto gli ospedali.
Abbiamo vaghi ricordi della sala parto nel cuore della notte, degli orsetti rosa e celesti della nursery e del caffè annacquato alle 5 del mattino. Ma sono bei ricordi. E poi, almeno una volta all’anno, capita che un figliolo vada a sbattere la sua testa dura contro qualcosa di ancora più duro. Tanto da averci ormai fatto il callo, lì sulla testa.
Ieri sera, variazione sul tema, ci facciamo un giro per un’ernia inguinale. Nulla di grave, ma la pediatra dice PS, e allora che PS sia.

E tu, che non sei affatto una mamma ansiosa, anzi… Forse se fossi un pelo più ansiosa tuo figlio la smetterebbe di sbattere la testa ovunque… (Ma che razza di mamma sei?!) Sì ok, ma ansiosa o no, l’ernia inguinale non è colpa tua… (Lo dici solo per non sentirti in colpa)… Insomma, tu che non sei affatto una mamma ansiosa e se proprio proprio ti avanza del tempo libero di certo non vai a farti un giro in pronto soccorso (E dai, ti senti un disastro!) … segui le impronte dell’elefantino, poi quelle del canguro, poi quelle della scimmietta, fai una giravolta, falla un’altra volta, sbatti contro un tavolino IKEA, fai un bel respiro e finalmente schiacci il pulsante rosso del triage.

“Lo so, mi scusi, sono un disastro… siamo qui perché…” E spieghi e racconti e firmi e incespichi sul codice fiscale e tiri fuori tutti i referti e riporti la storia di tuo figlio per come l’hai capita tu. E un po’ ti rilassi perché loro sorridono e annuiscono e ascoltano e scrivono e ti chiamano “mamma” e ti darebbero pure una carezza se non fossero dall’altra parte del vetro.

Poi però succede una cosa terribile. Succede che il piccolino di cinque mesi, che ti sei dovuta portare dietro perché il papà non lo sa ancora allattare, apre la bocca, ingoia un moscerino e starnutisce.

E a nulla vale dire che quasi tutti avete appena fatto il tampone Covid al rientro dalle vacanze e che siete tutti negativi e che tu hai pure aspettato l’esito per venire in PS. Come quasi tutti? No, lui no perché ci hanno detto che era troppo piccolo… Ma chi gliel’ha detto? Quale call center? Ma si rende conto, signora mia, che questo starnuto è proprio un bel sintomo respiratorio? Ma che glielo dobbiamo spiegare noi? Adesso vediamo, signora mia, ma qui è proprio un bel pasticcio!

E citofonano e chiamano e si consultano e un po’ ti insultano e ti additano, come se tu non fossi lì davanti, dall’altra parte del vetro. E alla fine la facciamo entrare, signora mia, ma solo per questa volta, e con una bella firma in fondo a un modulo che dice “familiare sospetto Covid”. Appeso al collo col campanaccio. E tu ti senti come una profuga su un barcone, sballottata da una stanza all’altra col tuo modulo appeso al collo, mentre tutti gli altri parlano un’altra lingua, con un’ernia inguinale attaccata alla gamba e un sospetto Covid accucciato in braccio. E vai avanti solo perché oltre la porta scorrevole del triage non ti sai più orientare, e perché sei una mamma.

Poi, dopo due ore, l’epifania del Chirurgo. Mascherato da Ghostbuster e con un bel codazzo di valletti ossequiosi. Fa sdraiare tuo figlio sul lettino e, mentre lo smanaccia come fosse un calzino sporco, ti bofonchia un mezzo pippone che inizia con “E comunque lo dica alla sua pediatra che il tampone lo dovevate fare tutti!” e finisce con “E tu, pisquano, quanti anni hai?” Nel mezzo qualcosa tipo: “Non si permetta mai più di venire in PS con una finta ernia inguinale e un sospetto Covid a farmi perdere del tempo prezioso. Se ne stia a casa sua con tutte le sue paranoie e torni qui solo se suo figlio è in fin di vita!”

Al che tu vorresti dirgli: “Caro il mio dottore, se solo lei guardasse oltre la mascherina, vedrebbe un bambino steso a pancia in su senza mutande, che sta per mettersi a piangere per la fame, la stanchezza e la vergogna, e una mamma impaurita, disorientata e stanca. E se poi sbirciasse in sala d’attesa, troverebbe un barcone carico di bimbi spaventati e stanchi e di mamme disorientate, come noi. Arriviamo in ospedale col nostro zainetto di sensi di colpa, di dubbi e di ansie, ma poi ci guardiamo intorno e ci facciamo coraggio. Scherziamo sul sacchetto della pipì, sui sali minerali da ingoiare ogni 5 minuti, sui cerotti in fronte, sui buchini della flebo, sui pigiami sporchi di sangue, sul tampone che pizzica in gola. Inganniamo il tempo giocando a Uno e cantando filastrocche, ma non ci possiamo più scambiare peluche e pennarelli. Restiamo a un metro e mettiamo in circolo quel po’ d’amore. Veniamo da posti diversi, ma ci capiamo al volo perché parliamo la stessa lingua. Adesso che fa? Ci ributta tutti in mare per uno starnuto?”

Ma lo pensi e basta, perché a quel punto vuoi solo tirar su tuo figlio da quel maledetto lettino, rivestirlo, abbracciarlo forte e dirgli che tutto è passato, che adesso ve ne tornate a casa, dove vi aspettano con la cena pronta e un bagno di coccole. Perciò dici solo: “Mi perdoni, dottore, è che non ci capisco nulla”. Che è un po’ quello che direbbe una bionda davanti a una pompa di benzina self service. Funziona sempre se sei in panne.

* A onor del vero, è la prima volta che ci capita una cosa così, perciò fa male. Finora, in tutti gli ospedali in cui ci siamo fatti un giro, abbiamo sempre trovato persone splendide, che ci hanno coccolato e fatto sentire a casa. Grazie a quegli angeli e a tutte le mamme che nelle sale d’attesa degli ospedali pediatrici mettono in circolo un po’ d’amore.

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