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La realtà (non) si tocca

Il signor NO mette il muso e mi dice “Brutta mamma!” ogni volta che gli faccio notare che ha infilato le scarpe al contrario. Ma è colpa mia se esistono la destra e la sinistra? Se la farà passare sbattendoci contro. Si arrabbia perché una molletta da bucato non fischia, e vai a spiegargli che lei si piace così.

Abbiamo un amico che alla scuola materna disegnava gli alberi viola e il cielo arancione. Non era un artista incompreso, era daltonico.

A me la pioggia fa venire tristezza, ma per fortuna al mattino non devo decidere io le sorti atmosferiche del pianeta, altrimenti non ci sarebbero le mezze stagioni e mangeremmo anguria tutto l’anno. Boccheggiando come pesci spiaggiati.
È rassicurante sentire la terra sotto i piedi e sapere che non dipende da me tenerla in equilibrio mentre gira. È rassicurante doverci adeguare ai suoi ritmi con un anno bisestile.

“Signora, i primi tre mesi sarà la natura a decidere.” All’epoca tanta schiettezza mi sembrò crudele. Eppure. Non sta a me decidere se sarà maschio o femmina (si può dire?), biondo o moro, solare o introverso, obbediente o cocciuto. E per fortuna! Io non so scegliere nemmeno un paio di scarpe senza un aiutino da casa. Non ho il potere di chiamarmi alla vita e non conosco il mio ultimo giorno. Molto meglio così: potrei cambiare idea sul più bello.

Qualche settimana fa leggevo di un’illustre professoressa, “mamma bisessuale e poliamorosa”, che si batte per una “riscrittura contemporanea dell’immaginario collettivo italiano” perché sua figlia si sente esclusa quando a scuola si celebra la festa del papà. In effetti sarebbe più inclusivo raccontare ai bambini che si nasce sotto un cavolo.

E i famos* cavol* (che io minaccio a cena quando i miei figli se ne escono con le omonime interiezioni), non sarebbe più comodo disporl* nel banco del super se fossero quadrat* invece che rotond*? Non sarebbe più comodo se i carciof* nascessero senza tutte quelle foglie e il burr* d’arachidi non facesse ingrassare?

Ieri sera un piccolo predicatore chiosava così il capriccio di una sorella: “Camilla, devi rispondere quando ti chiamano. Magari non ti piace il tuo nome, ma mica te lo potevi scegliere da te!”

La realtà non si tocca. A manipolarla fa brutti scherzi.

Io ho sempre avuto qualche problema con i miei cinque nomi di battesimo estorti dalle nonne senza nemmeno il beneficio di una virgola, e alla fine non potendo ambire a un nome d’arte l’ho accorciato ai minimi sindacali. Troppe L e attirava battute scontate che non ti fanno ridere se sei una bambina vergognosa e piena di nei. Mio marito fa fatica a scegliere i nomi dei figli (il prossimo lo chiamerebbe #@* senza offendere nessuno), figuriamoci se immagina un alias per sé che non sia un account. Si tiene il suo senza fare una piega.

Ultimamente testo la mia elasticità mentale provando a immaginarmi in situazioni più o meno plausibili che potrebbero cogliermi alla sprovvista (non sia mai!). Per esempio. Se domani mio figlio di 8 anni mi dicesse:

– Mamma, domani mi faccio un tatuaggio. (Amore, un tatuaggio non è mica uno stato wa)
– Mamma, domani mi sposo. (Amore, il matrimonio non è mica un tatuaggio)

E se già non fosse poco democratico e altamente traumatizzante dichiarare che a 8 anni non sei ancora abbastanza maturo per fare certe scelte, di sicuro mi denunceranno quando taglierò corto con un bel: “Parlane con papà”. (Dichiarazione sessista e paracula)

– Mamma, mi sento a disagio così cicciotto. (Amore, chi ti ha detto che sei cicciotto? Adesso finisci la cena senza fare storie.)
– Mamma, mi sento a disagio col pisellino (Amore, ma vuoi mettere quanto è più comodo fare la pipì in piedi? E te lo dico contro il mio interesse…)
– Mamma, mi sento a disagio perché ho la pelle nera. (Questa è una mia fantasia, lo ammetto: ho sempre desiderato un figlio nero… ) (Questa cosa si può dire? O è razzista?) (Ma se davvero succedesse? Se uno domani volesse cambiare colore della pelle?)

Ora, io mi chiedo: chi di noi non si è sentito/non si sente a disagio nella sua pelle?
Chi di noi non ha dovuto bucare la terra per sbocciare, farsi spazio tra la viscere di una madre e puntare i piedi per venire al mondo, fare a pugni con lo specchio prima di piacersi (chiedetelo a noi che siamo sopravvissuti agli anni 80, se non eravamo dei disagiati), perdersi mille volte prima di trovare la sua strada? Chi di noi non ha dovuto imparare a stare solo con se stesso prima di imparare a stare in due? Conoscere la tristezza per saper gustare la felicità?

Perché sì, a volte la realtà ci sta stretta, ma questo non ci dà il diritto di deformarla.

Uno stato wa si può cambiare, un tatuaggio si può cancellare, persino un marito si può resettare. Nella vita si fanno errori, si cresce, si matura, si cambia idea. Si può dimagrire, tagliarsi i capelli a zero, farsi bocciare per ripicca, arrivare con fatica dove altri arrivano solo grazie al cognome, ripulire l’accento del paesello natio, convertirsi al buddhismo. Ma tante altre cose ce le dobbiamo far piacere così come sono, non si toccano. (Al massimo ci si sbatte contro e si riparte.)

In fondo trovare se stessi è ri-trovarsi nella propria unicità, non inventarsi ex novo. Facciamocene una ragione: crearci non sta a noi. Scoprirsi e rimanere fedeli a se stessi è un percorso, richiede tempo e pazienza. A volte ci vuole una vita intera. Ma se ci si arrende, se ci si fida, se non si riscrive il mondo come ce l’abbiamo in testa noi e si sta a guardare senza toccare, a un certo punto la pace arriva. A un certo punto, dopo tanto combattere contro te stesso, arrivi a piacerti così come sei perché a qualcuno piaci così come sei. E a Qualcuno piaci così come sei e non avrebbe saputo inventarti meglio. Sei unico, così come sei, eppure somigli a.

Sei così.
Sei fatto così.
Sei stato fatto così.
Da.

Da qualche anno a questa parte mi sto allenando a non cambiare i regali ricevuti e a buttare lo scontrino cortesia. Per me – che odio le sorprese e vorrei commissionare un link per essere sicura sicura – spesso è una faticaccia, ma ne vale la pena. Impari ad apprezzare il regalo perché ricevuto da chi ti ama.

Ho iniziato ad amare il mio nome quando mi sono sentita chiamare per nome.

* Lo so, sono ripetitiva, ma alla fine l’origine di tutti i casini qui sulla terra è dimenticarci che siamo figli.
* E comunque, dopo anni di battaglie linguistiche su sindaco e sindachessa (e perché non pianisto?) abbiamo salvato capr* e cavol* con un bell’asterisco. Umanoidi paraculi!
* A Messa continueremo a dire “Fratelli e Sorelle”?

– Mamma, io mi sento una bambina, da domani chiamatemi Aurora. (Amore, io a volte mi sento un pastore tedesco, ma vallo a convincere l’impiegato dell’anagrafe)

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