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Le stelle di quaggiù

Narrano i rotocalchi che Samantha Cristoforetti (2-3 lauree e 4 master, una mezza dozzina di lingue parlate correntemente, ufficiale dell’Aeronautica militare, Sciabola d’onore, pilota di guerra, Cavaliere e Commendatore, in servizio nei Cacciabombardieri a quanto narrano i miei figli) (che voglio vedere se a una mamma con questo CV ti azzardi a disobbedire)… sia stata lanciata nello spazio. Il resto è leggenda, e da un paio di giorni i miei figli si sono fissati che devono dormire in un sacco a pelo fluttuante, lanciarsi tortillas spalmate in volo e fare pipì a testa in giù.
E i bambini? chiedono i paparazzi ad AstroSamantha già in tenuta stellare.
I bambini hanno un padre! risponde metafisica lei.
Solita caciara sulle quote rosa, i commenti sessisti, il Paese per vecchi, la fuga dei cervelli. Tant’è. Domani si tornerà a parlare del passaggio a livello sempre chiuso e della frittata gommosa della mensa scolastica.

Ma qualcuno ha intervistato il padre? A quel poverino (che non oso immaginare il primo appuntamento), qualcuno gli ha chiesto come se la caverà 6 mesi senza di lei? A che ora si sentiranno per la buona notte e quanti post-it gli ha lasciato sul frigo?
Perché nessuno ci racconta – non si può più dire? – che in tutte le famiglie per uno che vola c’è un altro che resta a terra. Uno che corre, e un altro che rallenta. Uno che si siede a tavola, e un altro che mangia la piadina fredda. Uno che splende e uno che resta in ombra.
In una simbiosi che a volte è pura intesa di sguardi. E altre scontro di cocci.

All’inizio è semplice, semplicissimo. Sei piovuto dal cielo come stella cadente. Perché proprio a me, tra milioni di altri? Si balbetta, si arrossisce, sopraffatti dalla gratitudine. Si fa di tutto, e senza sforzo, anzi a gara, per mettere l’altro nella sua luce migliore. Perché è bello starti a guardare mentre brilli. Dovessi vivere cent’anni di luce riflessa.
Uno stupore talmente pieno che ci si promette persino di custodirlo. Io accolgo te.

A scatola chiusa, perché il mio posto sei tu e altrove sarei perso come un satellite fuori orbita.
Accolgo te, non sapendo cosa c’è nel tuo futuro, e nemmeno troppo bene cosa c’è nel tuo passato. Tutto quanto. Vecchie abitudini che alla lunga stancano, vecchie ferite che tornano a far male, vecchi difetti che col tempo inacidiscono. E poi nuove malattie, nuovi malumori, nuove paranoie. Il tutto replicato esponenzialmente in un mix dei nostri casini ben shakerato che ci assomiglia eppure ci sovrasta, a cui da domani potrò dare anche il mio di cognome. A rinfacciarmi anche legalmente da che mezza genealogia provengono.

Poi però succede che non è giusto. Quasi mai lo è. A ragionare con la bolla.
Che poi dove sta scritto? Ma chi l’ha detto?
Che devo sempre chiedere un permesso io se hanno la febbre.
Che se dimenticano il diario è colpa mia.
Che di notte mi devo alzare io mentre tu dormi.

E si puntano i piedi, e si mettono i puntini sulle i, e si rimugina sui millimetri.

Perché io, e invece tu. Non più noi.

E a lungo andare anche le parole non dette, i grazie dimenticati e le scuse rimandate diventano sacche di rancore e di rimpianti, per quel salto non spiccato e per quell’occasione persa. Per quel tempo sprecato e per quel cono d’ombra subìto. Per tutte quelle volte in cui tu hai brillato, e non io.

Per questo ci piace guardare Samantha in partenza per lo spazio e sentirle dire che i suoi bimbi le mancheranno, sì, certo.
Che conterà i giorni e i minuti e i secondi se non gli anni luce, fino al prossimo abbraccio, anche.
Che tornerà a casa con la polvere di stelle, forse.
Ma che adesso si può godere la passeggiata tra le stelle perché a casa c’è chi l’aspetta.

Chissà se quando tornerà, come certe volte io o te dal lavoro, si chiederanno l’un l’altro togliendo le scarpe: “Cosa hai combinato in questi sei mesi?”
E non importa chi pesterà lo zerbino e chi dirà bentornato. Perché sarà bello raccontare e sarà bello ascoltare, come se non ci fosse missione più importante al mondo.

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