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I selfie e il mito dell’autarchia

Capita a volte che, magari in vacanza, magari in un posto che non vedremo mai più, magari in un giorno speciale, proponga una foto di famiglia. Ok, è imbarazzante radunarli tutti, praticamente impossibile scongiurare linguacce, corna, dita nel naso e pizzicotti, ma puntualmente il mio compagno di viaggio mi supplica di non chiedere il click a un passante. Dice che, ormai da dieci anni, si va di selfie.

Mia mamma attacca bottone con chiunque incontri per via. Perlopiù nonnine a spasso nelle ore di punta che, dopo averle raccontato di parenti defunti fino all’ottava generazione, le propinano ricette magiche contro la febbre da fieno. Io la prendo in giro, le dico che qui al Nord non si fa, ma forse forse ha ragione lei. Forse più di noi queste vecchine hanno paura di morire sole; forse più di noi hanno capito che si guadagna tempo solo a sprecarlo. Forse semplicemente più di noi si sentono creature.

Le merendine monoporzione aggirano i capricci, ma i frollini formato famiglia sono più economici, e anche il pianeta ringrazia.

Al primo giorno di mare mi ricordo perché qualche mese fa ci siamo trasferiti dal condominio alla villetta con giardino, con grande sollievo dei nostri ex vicini di casa.

Esistono bambini carini e coccolosi? Sì, quelli degli altri. I miei nemmeno nelle foto del Battesimo. Non tirate i sassi! Non alzate la sabbia! Non schizzate la signora che si è appena fatta la piega! Non rincorrete i gabbiani! Non camminate sui teli degli altri! Non urlate! Non indicate! Non spaccatevi la testa! Il Decalogo mi fa un baffo, e ho pure eliminato dalla lista le 3 ore di pausa digestione. Sono sicura che per alcuni il nostro primo giorno di vacanze segna la fine delle loro. Siamo oggettivamente fastidiosi, rumorosi, strabordanti, impertinenti, scoordinati, sempre in mezzo, sempre di troppo. Siamo un impiastro, un intralcio, una zavorra, una deviazione fastidiosa per lavori in corso.
Occupiamo impunemente tutto il marciapiedi, come ci fa notare con un’occhiataccia il tipello tonico e abbronzato che a bordo di monopattino ci viene incontro (anzi contro) con lattina in mano. Ovviamente l’occhiataccia è tutta per la genitrice. Vaglielo a spiegare al tipello che non c’è verso di farli marciare in fila indiana, e che la genitrice un tempo tipella tonica e abbronzata adesso già alle 9 AM è troppo cotta per sterzare prontamente col passeggino stracarico di braccioli, teli, ruspe e secchielli. Strike.

Anch’io, lo ammetto, prima di Diana e di tutti i bambini invisibili dimenticati come pacchi in stazione, mi sono chiesta tante volte come sarebbe la mia vita se potessi andare al mare senza questa carovana ingombrante di secchielli e di capricci. Se solo per una mezz’oretta si dimenticassero della mamma. Forse filerei anch’io leggera e spensierata sul mio monopattino, con il mio telo, il mio poke, la mia Coca Zero, le mie cuffiette, il mio cellulare, i miei tempi. Occupando il rettangolo di spiaggia strettamente necessario per prendere il sole sempre dritto in faccia, senza lasciare scarti in giro e tracce del mio passaggio, senza dar fastidio a nessuno.

Selfie, self service, self control, faidate, arrangiati, ognun per sé e Dio per tutti.
Nessuno a cui dover chiedere grazie, scusa, permesso.
Da quando fa così paura a noi mortali dover dipendere da qualcuno, scomodare un passante, chiedere la strada se ci siamo persi? Da quando ci sembra così umiliante essere di peso? Ricordarci l’un l’altro che siamo terra?

Ecco, io non mi ricordo di essermi svegliata un solo giorno sentendomi talmente figa, ma talmente figa, da farmi un selfie.
Sarà che l’amore rende fragili. Si perde l’equilibrio, si fanno cose folli, si resta svegli per un messaggino.
Sarà che dai miei figli, più che da mio marito, ho imparato che bastare a se stessi è un’utopia.

Prima di loro, tipelli tonici e abbronzati, noi due bastavamo a noi stessi, e negli occhi dell’altro ci guardavamo unici al mondo. Invece i figli pesano. (E io scopro, ahimè, di temere la fatica assai più del dolore.) La pancia pesa, svegliarsi di notte pesa, chinarsi sui primi passi pesa, portarti a cavalluccio pesa, beccarsi la sesta malattia pesa, fare la spesa con la calcolatrice pesa. L’amore pesa.

Sarà che i miei figli, più che mio marito, mi insegnano ogni giorno cosa significa amare, facendomi uscire dalla bolla del mio MIO. Perché fanno chiasso, rubano secchielli, saltano la coda alle docce, mi costringono a chiacchierare con mamme sconosciute davanti a castelli di sabbia, a mollare il cellulare, a nuotare fino alle boe, a gonfiare i braccioli di un amichetto, persino a raccogliere briciole di gavettoni perché altri bimbi non li ingoino.

Da quando ci sono loro, il mio mondo pesa un sacco, perché è carico di infiniti TU.

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