Già, perché le cose io le capisco solo a forza di sbatterci contro.
Il benedetto uomo che ogni mattina testa il mio orienteering nella mia fu cabina armadio, quando lo rimprovero manco fosse un bambino, cercando a caso un pretesto per litigare, me lo rinfaccia con una semplicità disarmante: “Ma perché? tu non sbagli mai?”
Non è vero che non sbaglio. Anzi. È che non lo faccio con la sua spensieratezza.
Perciò mi si stringe il cuore e vorrei evaporare all’istante, ogni volta che al parchetto mi si avvicina una mamma curiosa: “Scusa, ma sono tutti tuoi?” E poi chiama il marito, i vicini di casa, e raduna altre mamme curiose nemmeno fosse giorno di mercato. “Roba da non crederci! Indovinate quanti!” Insomma ogni volta è uno strazio. Come quando suor Purissima ti teneva mezz’ora alla lavagna e quei due cretini spellingavano S-E-C-C-H-I-O-N-A.
“No, ma tu sei Wonder Woman! Ma poi guardala, non ha messo su un chilo! E magari lavori pure?! Dicci la verità: ti droghi?” E avanti con la solita fantasia. Tv, calcetto e compagnia bella. Schedata. Non sei più una di loro.
L’algoritmo è semplice: x figli = x volte più capace.
E nessuno ci crede che invece x figli = x volte più sbagli.
Negli anni mi sono arrangiata con delle risposte vaghe, con delle mezze battute, con delle mezze bugie. A volte ho cambiato parchetto.
La verità è che ci rimango sempre un po’ male. Perché la perfezione, anche solo l’idea di perfezione che ti appiccicano addosso, schiaccia come un tritasassi. Vorrei rispondere a tutti: no, no, no, non sono come tu pensi. Non sono quella che immagini.
Se solo tu mi vedessi come sono davvero.
Se solo fossi in casa mia.
Se solo sapessi quanto è faticoso essere me.
A casa lo sanno, e lo scarto mi riempie di vergogna.
Sanno i grandi ideali e le bassezze quotidiane. Sanno la tenerezza e un istante dopo l’ira funesta. L’impeto di generosità e girato l’angolo il più smaccato egoismo. (E anche viceversa, ogni tanto.)
C’è una domanda che mi resta sospesa in fondo alla sfilza di se.
Che al parchetto non me la sento di fare e che in famiglia non c’è bisogno di fare.
… Tu, mi vorresti bene comunque?
C’è una cosa che appunto sto imparando sulla mia pelle, a forza di scivoloni: che la famiglia è luogo di perdono.
All’inizio non era così. Paradiso terrestre, Mulino Bianco, Adamo ed Eva che si facevano le coccole tutto il giorno passeggiando mano nella mano come due quindicenni. Poi il fattaccio della mela. E da allora litigate, tradimenti, bugie, doppi sensi, pioggia a catinelle, meteoriti impazziti, fratelli che vendono i fratelli, popoli che vagano nel deserto, re assetati di sangue, profeti che finiscono come Pinocchio. Un casino.
Eppure, a ogni svolta, questa cosa nuova del perdono che si affaccia dal cielo e davvero lava via tutto. Qualunque cosa combini, tu resti figlio, non c’è storia.
Il problema del perdono è che è gratis.
Io invece mi metto sempre in testa che devo meritarmelo.
Che se ho sbagliato devo pagare. Saldare. Scontare.
Un’amica saggia mi disse una volta che alla sera della vita il tribunale più severo a cui dovremo render conto sarà la nostra coscienza, troppo spesso gravata da falsi miti. Se ci sentiamo figli sarà una passeggiata.
E io già mi vedo, scassamaroni che sono.
Arrivata dall’altra parte me ne starò sullo zerbino a guardarmi la punta delle scarpe e a ricordare al buon Dio che Mimì e Ciccì e Coccò loro sì che erano delle brave mamme, loro sì che le colazioni e le coccole e il bioparco e l’alfabeto tattile. Io invece: se solo sapessi, che razza di mamma! certe cose che se solo, ma che te lo dico a fa’ … ?
Io me lo vedo il buon Dio, che non ci dà un taglio solo perché è eterno e ubiquo, sorbirsi la mia tiritera frizzante quanto la segreteria telefonica dell’INPS.
E solo quando avrò finalmente esaurito il fiato:
Togliti le scarpe. Qui sei a casa.